Recensione a cura di Riccardo Rezzesi

Pensare, o ripensare, l’economia, il lavoro, la cooperazione, il management orientati (ma non “intrappolati”) dallo sguardo di grandi autori è l’esplicito proposito della collana «Penser avec», edita da Nouvelle Cité1. L’opera del «classico» è assunta come sfondo e orizzonte di pensiero, dove si stagliano nitidamente le urgenti questioni che la realtà economica contemporanea impone alla nostra attenzione.

In questa cornice, Emmanuel Gabellieri decide di dialogare con Simone Weil, interrogandola a fondo su temi complessi e di stringente attualità: qual è la dimensione autentica del lavoro? Il lavoro è alienazione o perno di un lungo e articolato processo di civilizzazione? Il volto e le mani dell’operaio di ieri sono così diversi da quelli di coloro che, nell’era dominata dalle nuove tecnologie, si turnano nelle fabbriche e nelle industrie del nostro mondo? Ed infine, lavoro e dono di sé sono dimensioni incompatibili, destinate a contraddirsi, oppure momenti di un’unica, inesauribile rivelazione? E cioè a dire, che l’essere umano non è solo spirito, ma anche carne e materia; e tanto più il suo intelletto si libra in alto quanto più i suoi piedi si scoprono a calpestare le intricate praterie della storia e del (suo) mondo. Con il pensiero coglie l’immutabile, ma è con le mani che l’essere umano forgia il suo destino terreno: pensiero e azione si rivelano momenti di pienezza dell’umano.

Quando si parla di lavoro, alienazione, condizione proletaria, il pensiero della Weil in materia può apparire «paradossale», sostiene Gabellieri. Calate nel vivo del dibattito contemporaneo, le parole della Weil spiccano cioè per originalità e potenza espressiva: «[…] aucun autre philosophe n’a sans doute affirmé autant la valeur humaine et spirituelle du travail authentique, et la nécessité urgente d’élaborer une “civilisation” et une “spiritualité” du travail que l’humanité n’a jamais vraiment réussi à développer pleinement» (p. 22)2. Per l’autrice de La Condition ouvrière (Gallimard, 1951), il lavoro non si può ridurre allo sforzo, alla fatica dell’atto, al sudore della fronte. I Greci avevano torto (o parzialmente ragione): lavorare non significa sottomettersi ciecamente alla necessità delle cose. Lavoro e contemplazione non si contraddicono; al contrario, sono i segni di un patto originario, quello dell’uomo con l’universo. Se il giudizio del mondo greco non coglie la dimensione autentica del lavoro, la concezione dominante che si fa strada presso i Moderni non si dimostra meno miope: la Modernità si concentra sulla «capacità di produzione» e non attribuisce al lavoro alcun valore spirituale. I Greci vedono nel «lavoratore» uno schiavo: della natura, delle cose, della necessità. I Moderni lo riducono a macchina, capace di espletare un’unica funzione: produrre, coltivando l’ambizione di poter dominare e sfruttare ad libitum la natura e le sue risorse. Il lavoro non è solo quello sforzo teso a superare lo scarto che sussiste tra il bisogno e la sua soddisfazione, che inesorabile testimonia la subordinazione dell’essere umano alla necessità; il lavoro è questo ma anche altro: è esperienza di libertà e d’un potere creatore che si radica nella possibilità concreta che lo spirito riesca a dominare, per l’appunto, la necessità inscritta nelle «cose del mondo». «Il s’agit donc – scrive Gabellieri – de savoir si l’on peut se libérer du poids de la tradition qui, des Grecs aux Modernes, a le plus souvent placé le travail et la technique hors de la sphère des réalités spirituelles»3.

Per Weil, scrive Gabellieri, il lavoro non è né schiavitù né esaltazione della produzione; il lavoro, se autentico, ci offre infatti le coordinate di un «luogo» inedito tanto allo sguardo dei Greci che a quello dei Moderni, tra le fila del quale l’essere umano si dimostra capace di sviluppare una conoscenza «pratica e concreta» della realtà. Il lavoro è, insieme all’arte e alla scienza, un simbolo del patto che si consuma tra l’alto e il basso, tra il cielo e la terra, tra l’essere umano e l’universo e tra l’essere umano e la società che abita. «C’est pourquoi – scrive Gabellieri – il n’y a de civilisation véritablement humaine que si la possibilité d’unir travail et contemplation est donnée à chaque travailleur» (p. 23)4. Il legame tra spirito e mondo si rivela innanzitutto attraverso la «vocazione umana» a stringere in un nodo essenziale lavoro e contemplazione; è nell’unità del lavoro e del pensiero che riposa la «vera grandezza umana», nel desiderio cioè di abbandonare l’astrazione per abbracciare pienamente la realtà, guadagnando un «contatto diretto con la vita». (p. 50).

Imbattendoci nella Weil, dagli scritti giovanili fino alle riflessioni più mature, non incontreremo mai così una “semplice” filosofia del lavoro; avremo a che fare piuttosto con una filosofia dell’articolazione tra lavoro e contemplazione, tra pensiero e azione (pp. 36-37). L’unione fra questi due «poli del pensiero» è vista come ideale di libertà; è un segno della «grazia» che è concessa al corpo e che consiste nell’agire e nel pensare inspirati dalla contemplazione. I Greci, verso i quali – è bene ricordarlo – Weil nutre una profonda ammirazione (soprattutto per Platone), sono rimasti talmente affascinati dalle «Idee pure» da rimanere ciechi di fronte al legame essenziale che s’instaura tra scienza, arte e lavoro (pp. 39-40).

Simone Weil non è la sola voce che prende corpo fra le pagine del volume; ce ne sono altre, con cui Weil, nel riflettere di economia e lavoro, dialoga e si confronta; e che Gabellieri riporta fedelmente, offrendoci sempre nuove angolature sul pensiero dell’autrice, sui temi trattati e sulla complessità filosofica e storiografica delle loro trame: Marx e Proudhon sono voci ben presenti (ma anche Hanna Arendt, solo per citare un altro nome “di peso”), alle quali Gabellieri dedica due capitoli distinti (Le débat avec Marx e «Révolution» et idéal coopératif) e con le quali occorre fare i conti per capire l’evoluzione e l’originalità dell’itinerario intellettuale che Weil affronta nel corso della sua esperienza di pensiero.

Agli occhi della Weil, Marx ha non pochi meriti. Alcuni delle intuizioni e degli sforzi teoretici del pensatore di Treviri meritano la massima considerazione: si è dimostrato un «filosofo del lavoro» capace di superare l’antinomia tra idealismo e materialismo, coltivando così l’ideale di un «uomo completo» e non dando credito alla separazione tra «lavoro manuale» e «lavoro intellettuale»; ha messo un forte accento sul ruolo determinante che lo spirito gioca nel suo rapportarsi al mondo; ha individuato nella subordinazione del soggetto all’oggetto l’essenza dell’oppressione e dell’alienazione (p. 66).

Tutti elementi che dimostrano quanto Marx avesse a cuore la «libertà umana», ma che non lo dispensano dagli errori di valutazione commessi; uno su tutti il non aver distinto l’oppressione fondata sui rapporti di proprietà e quella creata dai rapporti impliciti nella tecnica stessa di produzione. Cioè a dire, se il nucleo del potere del «capitalista» è l’oppressione che le «macchine» riescono a esercitare sugli operai, è evidente che il centro della questione non può essere rintracciato nel regime di proprietà ma nelle logiche della «grande industria» (p. 71).

Marx si è illuso che bastasse il passaggio dalla proprietà privata alla proprietà collettiva dei mezzi di produzione per sradicare dalla storia lo sfruttamento capitalista e i meccanismi perversi dell’oppressione sociale: è stato questo il suo «grande errore». Nell’adottare una sincera «fede determinista» nel progresso, tanto forte quanto quella del più feroce capitalista, non è riuscito a scorgere la vera fonte dell’oppressione moderna: il modo in cui le «strutture tecnocratiche» gestiscono la produzione. Contro l’alienazione del lavoro, una rivoluzione è sì necessaria, ma non implica un evento violento che spacchi la storia in due né dipende da un determinismo storico dal volto messianico; rinvia piuttosto all’urgenza di un’ispirazione morale avvertita più da Proudhon che da Marx (pp. 24-25).

Sia per Proudhon che per la Weil non può esserci «vera» rivoluzione che non trovi ispirazione in una dimensione morale, che non si scopra in ascolto di un ideale capace di modellare le «azioni concrete» di coloro che lottano per l’avvento di una società «più umana». Niente a che fare con la rivoluzione nel senso corrente del termine: evento violento, brusco, radicale. La guerra rivoluzionaria è la tomba della rivoluzione, sostiene la Weil, che si dimostra pienamente d’accordo con Proudhon nel sostenere che la «vera rivoluzione» non può essere assimilata a un «rovesciamento brutale» in grado di spaccare la storia in due. La rivoluzione, quella «vera», si traduce nella realizzazione progressiva dell’ideale morale e sociale della «cooperazione». «Or ceci suppose dans l’esprit de Proudhon que le travail, la coopération des travaux et des producteurs, soit le niveau essentiel du lien social, de l’humanisation à accomplir»5. Sia Weil che Proudhon condividono così una concezione «evoluzionaria» della rivoluzione; e la condividono sotto l’egida di una convinzione: sulle mani del (vero) rivoluzionario non troverete mai una goccia di sangue; la violenza tradisce l’ideale. (pp. 89-93).

Ma Proudhon, come Marx, non è esente da critiche. Ciò che manca a Proudhon è un’analisi sistematica delle «condizioni tecniche» dell’oppressione moderna e delle «condizioni politiche» della trasformazione sociale; gli manca cioè una «dottrina», un metodo di trasformazione delle strutture economiche: «laquelle serait capable de concilier technique moderne et liberté sans supposer l’abolition fantastique, soit de la division sociale du travail (Marx), soit de la réalité politique (Proudhon)»6 . Sia Marx che Proudhon non offrono alcuna risposta né al problema tecnico della grande industria né sembrano diagnosticare i problemi (alienazione e oppressione) legati alle strutture burocratiche moderne (pp. 98-100).

Per la Weil, la questione centrale la si può formulare più o meno in questi termini, scrive Gabellieri: capire se nel contesto della produzione economica moderna è possibile pensare a un’inedita organizzazione sociale del lavoro capace di conciliare i ritmi produttivi incalzanti delle nostre società con le aspirazioni morali dagli esseri umani che lavorano e producono (p. 101). Weil pensa alla fabbrica, alle difficili condizioni in cui versano gli operai, allo sfruttamento di cui sono vittime, al macchinoso e ossessivo ripetersi dei loro gesti (il taylorismo è anche questo).

Ci pensa, e cerca una soluzione che non rispecchi le ricette né di Marx né di Proudhon. Ancora una volta, la sua non si presenta come una «filosofia del lavoro», ma come una filosofia volta a rendere pensabile l’interazione tra essere umani in uno spazio-tempo che si scopre bene da condividere. Il lavoro è il medium, motore di relazioni che danno vita a un «ritmo comune». Il pensiero si rivela così in una «co-azione» capace di dominare la necessità: chi lavora non è mai solo, schiavo dello stesso gesto ripetuto all’infinito; al contrario, apre gli occhi e si scopre parte di una pluralità d’individui immersi in uno spazio e in un tempo comuni. Il lavoro «pienamente umano» è la dominazione della necessità, resa possibile da un pensiero e da un’azione comuni. Secondo la Weil, solo un dialogo costante, inesausto tra tutti coloro che si trovano ad «abitare» la fabbrica potrà ridurre significativamente le strutture oppressive della produzione industriale. L’ideale, da cui la Weil si lascia ispirare, è quello di una cooperazione pura (pp. 155-118); ideale mirato e rimirato con lucidità e speranza.

Scrive Gabellieri: «introduire la pensée et l’action dans le travail suppose parallèlement de comprendre l’action sociale et politique comme un travail»7. Il lavoro è, per la Weil, una questione politica, se per politica s’intende non una tecnica o una scienza, ma una vera e propria «arte», che implica – per sua stessa natura – l’unità di ispirazione e lavoro. Ecco perché si può parlare di una «civiltà del lavoro»; l’essenza del lavoro è la stessa che fa capo alla «civiltà»: cioè ad a dire, «unire la necessità e il bene» (p. 130). Se poi, come fa Weil, ci lasciamo ispirare dal cristianesimo come «religione dell’incarnazione», il lavoro si presenta ai nostri occhi non solo come questione politica, ma anche come questione teologica: «le travail se révélant alors une participation à l’achèvement de la création»8 (pp. 26-27).

Lavoro e dono non sono incompatibili; il lavoro è dono di sé: «l’uomo si dona all’uomo in quanto lavora», dice la Weil. È per questo che non può essere sfruttamento, alienazione, oppressione; il lavoro è un donarsi che riattualizza il patto originario tra lo spirito, il mondo e gli esseri umani: gli uni con gli altri (pp. 148-149).

Gabellieri ci mette in guarda così dal carattere «inumano» che tanto il lavoro quanto l’economia possono acquisire se ridotti a una insieme di mezzi di sfruttamento tecnici e finanziari. Come dire, l’economia non è (solo) una serie di numeri e il lavoro non è negazione della libertà personale. Al contrario, è il momento della sua massima espressione e della sua piena realizzazione: libero è l’uomo che si dona all’altro uomo lavorando entro i confini di uno spazio-tempo modellato dai principi della solidarietà e della cooperazione. Al tempo della «rivoluzione informatica», dove il lavoro rischia di venir condensato in un «fatto numerico», il pensiero della Weil non può che apparirci «contemporaneo», un utile approdo per tutti coloro che desiderano sperimentare la dimensione più profonda del «lavoro autentico» (pp.157-160).

1 La traduzione dei passi del volume, citati nel corpo del testo in francese, è riportata in nota ed è opera dell’autore della recensione.

2 Nessun’altro filosofo ha insistito così tanto sul valore umano e spirituale del lavoro autentico, e sulla necessità urgente di elaborare una «civilità» e una «spiritualità» del lavoro che l’umanità non è mai riuscita a sviluppare pienamente.

3 Si tratta dunque di sapere se è possibile liberarsi del peso della tradizione che, dai Greci ai Moderni, ha generalmente collocato il lavoro e la tecnica al di fuori della sfera delle realtà spirituali.

4 Per questo motivo non ci può essere civiltà autenticamente umana se a ogni lavoratore non viene offerta la possibilità di unire lavoro e contemplazione.

5 Tuttavia ciò implica agli occhi di Proudhon che il lavoro, la cooperazione dei lavoratori e dei produttori sia il livello essenziale del legame sociale, dell’umanizzazione da realizzare.

6 La quale sarebbe in grado di conciliare tecnica moderna e libertà senza richiedere l’abolizione fantastica sia della divisione sociale del lavoro (Marx) sia della realtà politica (Proudhon).

7 Introdurre il pensiero e l’azione nel lavoro significa allo stesso tempo comprendere l’azione sociale e politica come un lavoro.

8 Il lavoro si rivela allora una partecipazione al compimento della creazione.